L’importanza di investire di più sulla cultura del vino (e meno sull’advertising)

Sommelier professionista, wine educator, giudice nei concorsi enologici in tutto il mondo, Vinitaly International Ambassador, membro dell’International Circle of Wine Writers di Londra. È anche blogger di successo e il suo podcast è tra i più ascoltati del settore.
Per di più, è donna ed è italiana.
Laura Donadoni vive e lavora negli Stati Uniti, ma in questi mesi sta percorrendo l’Italia dalle Alpi al Canale di Sicilia per intervistare i produttori di vino in vista della sua prossima uscita editoriale. Intercettata nel corso di una trasferta da una vigna a un’altra, abbiamo approfondito con lei proprio lo stile di comunicazione che ha il vino in questo nostro Bel Paese.

Lei è una vera esperta di comunicazione del vino, la Italian Wine Girl “dei due mondi”, potremmo dire. A lei facciamo la nostra domanda di rito: come possiamo mantenere una rotta sicura in mezzo all’oceano di magazine specializzati, blog, siti e piattaforme social che cercano di venderci solo il vino migliore?
Per rispondere pienamente a questa domanda ci vorrebbero ore! Certo è vero: c’è una certa confusione nella comunicazione del vino – e non solo in Italia. Non è affatto facile distinguere ciò che è il racconto di fatti oggettivi da quanto invece è piuttosto una suggestione orchestrata dagli uffici marketing.
Nell’era dei social è addirittura difficile fare questa distinzione in riferimento a un oggetto concreto – un elettrodomestico, per esempio – che può funzionare bene o male, essere uno strumento più o meno efficace. Ma se parliamo di vino, ovvero di un prodotto emotivo, legato a una sua storia, a dei ricordi, alle esperienze, la faccenda si complica ulteriormente. possiamo però affidarci alla verifica delle fonti: indagare, capire chi scrive, che tipo di formazione ha, se ha esperienza. Google è un grande strumento. Basta usarlo con la testa. Sulla faccenda del vino migliore mi permetta di dissentire proprio sul concetto di vino “migliore
”. 

Su questo ci torniamo. Vorrei approfondire prima l’idea del vino che ha espresso, ovvero quella dello strumento emotivo.
Io vengo dal giornalismo, dalla cronaca. Sono abituata alla verifica dei fatti. Ma nel caso del vino ci sono molti elementi non oggettivi, come emozioni, storia, ricordo che un sorso può suscitare. Tutto ciò è assolutamente personale. Per questo non faccio recensioni. Io posso raccontare quello che c’è dentro, attorno, dietro quel vino contenuto nel bicchiere. E cerco di farlo nel modo più semplice possibile, più diretto, come fanno i vini genuini, attraverso la piacevolezza e l’emozione suscitata fin dal primo sorso. Per me è molto importante comunicare la forza evocativa di un vino, prima ancora della sua qualità tecnica.”

Quindi niente punteggi, stelle, bicchieri…
Non fanno per me. Però è necessario chiarire che i punteggi – o le stelle o i bicchieri – sono uno strumento rapido, un modo concreto per comunicare velocemente le qualità tecniche di un vino. È più semplice, per gli esperti, giudicare un vino parlando dei tannini, dell’acidità, dell’invecchiamento… Il tecnicismo è la via sicura. Ma a chi stiamo parlando? A un numero ridotto di esperti o alla vastissima platea di consumatori di vino?
Questo tipo di comunicazione può diventare ostile agli occhi della maggior parte delle persone non esperte. Sulla base di questo fatto, ho da poco avviato un esperimento sul mio canale Instagram che vuole essere un modo fresco, divertente e non snob di degustare i vini che mi inviano per l’assaggio: la rubrica si chiama
indo-vino, assaggio a prima vista e a stappare le bottiglie davanti alla telecamera è mio marito Marcello. Lui non è del settore – è nel mondo degli elicotteri – ma è appassionato di vini ed è una buona forchetta. Credo che rappresenti il 90% del mio pubblico e infatti il suo modo schietto, trasparente e ilare di assaggiare i vini ha riscosso un grande successo. Molti poi, spinti dalla curiosità, vanno a cercare quel vitigno o quell’area vinicola in negozio e mi scrivono di aver assaggiato per la prima volta sapori nuovi e scoperto zone d’Italia che nemmeno conoscevano. Per me questa è una grande soddisfazione, è missione compiuta: informare con il sorriso, senza intimorire, ché il vino è vero e genuino e così chi lo apprezza.” 

Bene! Allora se vado al supermercato e acquisto un vino solo perché mi piace non commetto un sacrilegio.
Assolutamente no. Però rischia di commettere un errore: una volta scoperto un vino che le piace, che magari ha già gustato più volte, anziché continuare a bere lo stesso, provi a comprare un vino diverso, un vino per lei nuovo. Tutti abbiamo il nostro film preferito, che vediamo e rivediamo senza stancarci. Però è vero che ne vogliamo guardare anche altri, e magari tra questi scopriremo un film che ci piace ancora di più. La stessa cosa succede con il vino: è magico, ti racconta storie diverse, e non soltanto se è diverso il vino, ma addirittura se è diversa l’annata, la tecnica di produzione, la vigna. Dentro una bottiglia c’è tutta la storia del suo produttore, c’è la sua forza, ci sono le sue scelte, c’è il suo territorio con i suoi colori e tradizioni. Ogni bottiglia è un mondo da scoprire. Perché perderci questa opportunità bevendo sempre e solo ciò che ci fa sentire sicuri?

In effetti siamo un po’ vittime della pubblicità.
No, il consumatore non deve arrendersi a questo ruolo. Ci sono scaffali pieni zeppi di etichette e molte occasioni per essere coraggiosi e sperimentare in tutte le fasce di prezzo. Ma è vero che tocca a noi comunicatori avere altrettanto coraggio per offrire al consumatore gli strumenti più giusti, se non altro per illustrare tutte le possibili opzioni. Dobbiamo puntare a fare cultura del vino, dobbiamo dare importanza ai produttori, al loro lavoro, alle loro terre, alla loro storia. Al loro racconto. Non possiamo continuare a puntare sul marketing, sull’advertising puro. Negli Stati Uniti questa strategia di storytelling sta prendendo sempre più piede con ottimi risultati.” 

Cultura del vino. Ne abbiamo parlato proprio qualche settimana fa con Mattia Vezzola a proposito del rosé.
Chiamiamolo rosato, siamo in Italia e il rosato è un vino della tradizione italiana. Abbiamo dei territori vocati a rosato che producono vini straordinari. Sono territori piuttosto delimitati, è vero, ma i loro vini sono eccellenti: i produttori di questa nostra eccellenza hanno tentato di unirsi in un consorzio nel 2018, ma poi non ci sono state ulteriori evoluzioni.  Sul piano internazionale il modello da studiare è sicuramente la Provenza: sarà che i francesi hanno una maggior forza economica che spendono proprio in marketing? Il rosato di Valtenesi non ha nulla da invidiare a quello francese, e nulla di meno ha quello d’Abruzzo o del Salento. E smettiamola di vedere il rosato come un vino per femminucce per i retaggi del machismo enoico. Il colore o la gradazione alcolica non possono essere pregiudizi. Negli Stati Uniti – scusi se ci torno, ma è lì che vivo  e lavoro – il Drink Pink è di grandissima tendenza. In Italia, patria del rosato, no. È un peccato, ma ci sono realtà che stanno lavorando per invertire la tendenza, come RosExpo in Salento. Speriamo di riprendere il buon lavoro avviato dopo questa pandemia”. 

Lasciamo Laura Dondoni al suo viaggio che tra qualche tempo ci racconterà dei territori e del nostro vino. Un tour tra vigneti che, come ci dice sempre Laura Donadoni, “sono forti di una storia da raccontare, non mancano di guardare al futuro grazie a produttori che restano coerenti con la tradizione. Tradizione che spesso – proprio storicamente parlando – ha fatto rima con innovazione.”