Mattia Vezzola: la vela della tecnologia non basta

Con Mattia Vezzola, l’Enologo con la maiuscola, avremmo voluto parlare delle strategie di comunicazione del vino che impazzano in questi nostri giorni, così affollati di notizie e informazioni.
Mai come in questo caso il condizionale si è reso necessario, ché la discussione, partita giusta in verità, in men che non si dica ha deviato su territori davvero impervi, a tratti ardui. Un po’ come quando si va in escursione: si parte sul sentiero tracciato, e poi improvvisamente uno scorcio di bellezza trascina fuori dalla pista battuta, aprendo l’orizzonte a profumi e colori davvero inaspettati.

Dottor Vezzola, in questi tempi tecnologicamente avanzati, com’è possibile coniugare la filosofia della viticoltura con la tecnologia? (lo avevamo detto che eravamo partiti bene! nda)
Pensi alla viticoltura come a una barca: la tecnologia è la vela, la filosofia è il timone, e questo deve essere regolato dritto verso il sogno, l’obiettivo, la meta.
Il mio obiettivo oggi, come da molto molto tempo, è quello che intendo lasciare come insegnamento ai miei figli, ovvero non perdere mai la determinazione di perseguire il fine ma senza mai flettere le ginocchia, senza mai inchinarsi ai voleri delle mode, delle tendenze, delle situazioni che non hanno una reale e obiettiva ragion d’essere. La perfezione non è di questo mondo, come si sa, ma niente ci vieta di perseguirla.
Tornando alla tecnologia, è chiaro come con la sola naturalità non riuscirai mai a esprimerti. Io ho studiato molto, sì, l’enologia del Settecento e dell’Ottocento, ma ho anche studiato approfonditamente tutte le tecnologie migliori per mettere a frutto le mie conoscenze enologiche. La tecnologia da sola non ti consentirà mai di fare un vino buono: non dobbiamo dimenticare che l’uomo è solo l’interprete di quella materia che è l’uva. L’uva, la parte naturale della faccenda, va dunque interpretata, e per farlo ci vuole non solo conoscenza ma anche talento. E il talento, la vocazione, non c’è tecnologia in grado di dartelo
.”

Si eredita?
No, direi di no. Partiamo dal significato della parola vocazione. Ad esempio, si dice un territorio vocato a…. Questo vuol dire che nove anni su dieci, dico nove anni su dieci, da quel territorio in cui il bisnonno ha piantato vigne-ulivi-mais-pomodoro, nove anni su dieci si sono avuti raccolti di prim’ordine di uva-olive-mais-pomodoro, che ci sia stato freddo o caldo, che abbia piovuto poco o molto.
Vocato vuol dire che naturalmente genera materia prima di grande qualità. Capirà bene che un terreno con queste caratteristiche lo è per natura, per esposizione al sole, per composizione chimica della terra, per i venti che lo toccano. Ed è questa la materia prima che ti consente di esprimerti al meglio delle tue capacità, del tuo talento, della tua vocazione. E no, il talento non si eredita. Il talento è intrinseco nella visione e indole di ognuno di noi e solo unendo lo studio al lavoro abbiamo la possibilità di esprimerlo al meglio.”

E la sua storia insegna come talento e studio portino a grandi risultati.
Prima abbiamo accennato alla relazione tra la materia e il suo interprete, e prima ancora abbiamo accennato alla tecnologia. Ora affrontiamo l’argomento biodinamica. La biodinamica, nel nostro caso, si occupa di rigenerare la fertilità del terreno. Consideri che negli ultimi 50, 60 anni la maggior parte dei terreni è stata massacrata da diserbanti, disseccanti, lavorazioni meccaniche feroci, tanto che è quasi normale trovare terre con 40 unità viventi laddove 60 anni fa ce n’erano 1000. Da qui, la cosa principale è la rigenerazione delle biomasse. Solo terreni con biomasse ricche danno la possibilità all’apparato radicale della pianta di trovare proprio nella terra tutto quello che serve per il suo nutrimento ma anche per la sua difesa. E poi non bisogna mai negare un periodo di riposo durante il quale le biomasse si possono rigenerare. Da qui, dalla cura del terreno vocato, si ha la possibilità di avere materia prima di qualità. Funziona come per le persone: c’è chi a 70 anni deve usare il bastone e chi può partecipare alla maratona di New York. Insomma, puoi avere la giusta genetica, ma per mettere a frutto la vocazione che hai devi anche frequentare gli amici giusti, aver preso le giuste abitudini, aver avuto le giuste indicazioni dalla famiglia eccetera, quello che si chiama influenza sociale. È qui che si gioca la partita.
Torniamo alla mia storia.
C’era un terreno vocato, coltivato da un ottimo viticoltore, la cui materia – l’uva – è stata mortificata dal prezzo di un mercato che non ha rispetto né del viticoltore né dei figli di quel viticoltore che erediteranno quell’attività. Allora finisce che sei costretto a flettere le ginocchia e ad accettare di risparmiare prima sul tappo, poi sulla bottiglia, poi sui dipendenti e poi… poi chiudi. Un’azienda nata nel 1928 in ginocchio. Non potevo accettarlo. C’ho investito ogni micro energia della mia vita per invertire quella spirale funesta
.”

Questo è amore.
Tra quei filari custodisco uno dei ricordi più preziosi che ho. Ero ancora un ragazzo, che aiutava il padre nei campi, con la mamma che veniva a portare il pranzo. Un giorno tirò fuori del pane caldo e della mortadella, e acqua fresca. L’odore del pane, il colore delle vigne, la freschezza dell’acqua… in quel momento il mio battito del cuore rallentò. Tutto era come doveva essere. Da allora, ho scelto di vivere tra le vigne, materia che potevo lasciare ai miei figli che così avrebbero avuto la possibilità di incontrare quel battito lento”.

Una filosofia che guarda in profondità. 
Non ne conosco un’altra. Preferisco guardare alla sostanza invece che alla firma.
L’umiltà: questo è l’insegnamento della vigna. Si è mai chiesta perché l’eucarestia della religione cattolica si fa con il vino e non con la birra, bevanda più antica del vino? Perché il vino si fa coltivando l’uva a capo chino, curvi per tutto il primo anno di vita della pianta. Ci vuole umiltà per lavorare con la terra e con i suoi prodotti”. 

Ma lei pensa che chi beve un bicchiere di vino percepisca tutto questo? Non parlo degli esperti, degli enologi o dei sommelier. Parlo delle persone normali, come me. Persone che scelgono un vino al supermercato e lo bevono distrattamente a tavola.
No, ovviamente no. Ma quanti hanno la giusta preparazione e la vocazione per comprendere la grandezza di Dante? Eppure tutti, solo leggendo o anche ascoltando qualche verso della Divina Commedia restano colpiti dalle parole, o anche solo dalla musicalità delle parole. Suoni che sembrano fluidificare il sangue, che fanno battere il cuore più lento ma più forte… non saprei come altro dirlo. La viticoltura ti permette proprio questo, ti permette di rallentare tutti i movimenti. Se sai fare una cosa, e la sai fare bene ma proprio bene, le mani non hanno più bisogno di essere guidate e il tuo pensiero è libero di inseguire il prossimo passo, il prossimo sogno.”

Il suo di oggi è quello del rosé, ovvero invertire la tendenza per la quale il rosé è un vino di categoria b. Ma perché, secondo lei, il bianco o il rosso è vino, il rosé è “mah”?
Storicamente, il rosé è stato prodotto con uve di scarto e quindi sì, per molto tempo è stato un vino di scarsa qualità. Ma ci sono in tutta Italia terreni vocati al rosé, che producono uve di primissima categoria per un vino eccellente. Pensiamo al Valtenesi, che produce uve di primissima qualità… Il rosé è secondo me l’antidoto al formalismo. Apprezzato e amato da persone di grande qualità, che magari non amano mettersi in mostra… quelli che nelle foto stanno sempre in fondo, che non dimenticano di dire grazie, per favore… quelli che scelgono la semplicità.
La semplicità, al contrario di quanto possa sembrare, è davvero difficile. E la semplicità non è mai banalità. Mai. Anzi, il diaframma tra semplicità e banalità è la stupidità
.”

Quindi lei sarebbe d’accordo con Sepulveda, che ha detto “A volte il vino è la manifestazione liquida del silenzio.”
Assolutamente. Il silenzio è la musica più profonda”.

Quale sarà il suo prossimo sogno?
“(ride) Credo che sia proprio questo, ho un’età, sa? Però… Per 10 anni, ho scritto a mia moglie una lettera d’amore ogni giorno. Scritta a mano, tutta bella sistemata, ogni giorno. Mi veniva bene, ma le ultime due righe… Le ultime due righe erano le più difficili. Scrivevo pagine intere, ma quelle ultime due righe erano davvero impegnative. Capirà bene che proprio da quelle ultime due righe dipendeva l’esito della serata e mica potevo sbagliare la parola, oppure avere un ripensamento: mica potevo darle una lettera con delle cancellature. Le ultime due righe erano davvero molto ben ponderate, davvero faticose!

Già, non abbiamo parlato granché delle strategie di comunicazione del vino.
O forse sì?